Al volante di una monoposto, si insegue l’io oppure si fugge dal niente: entrambi comunque al traguardo ti aspettano per ricongiungersi. La lunga corsa di Giovanna Amati, ultima finora a coniugare in sé il binomio donne e motori, era cominciata fin dalla nascita, anno 1959, nel mondo del cinema: padre impresario, che aveva portato Armstrong e i Beatles a cantare all’Adriano, la capitale del suo impero di sale, e madre attrice scesa dallo schermo per sposarsi. La sua vita sembrava un film e lo era davvero: rapita nel 1978 da una banda di marsigliesi, dopo il rilascio volle proteggere il capo dei sequestratori, finendo per farlo arrestare in via Veneto. I giornali avrebbero parlato di sindrome di Stoccolma, il bandito sarebbe poi evaso da Volterra per essere riarrestato a Parigi. Intanto Giovanna si allontanava da tutto, allacciando il casco e alzando il piede dalla frizione, prima in Formula Abarth, poi in F3, quindi nel 1992 in Formula 1. Seguiva la scia della napoletana Maria De Filippis, che aveva ereditato la Maserati di Fangio, dell’alessandrina Lella Lombardi, unica ad andare a punti, dell’ex sciatrice inglese Divina Galica, della sudafricana Desiré Wilson. Sulla macchina di Jack Brabham, alla sua ultima stagione da gestore di scuderia, Giovanna corse come secondo pilota in Sudafrica, Messico e Brasile, senza superare le qualificazioni, cedendo quindi il posto al futuro campione del mondo Damon Hill. Non lasciò il mondo degli autodromi, proseguendo fino a fine secolo sulle piste minori: voleva ancora inseguire oppure fuggire, staccarsi da se stessa. Il cinema, dove era nata, è il solo posto dove le luci si riaccendono quando lo spettacolo finisce. Dopo di lei, nessuna donna ha più corso in Formula 1. La velocità è dura come il diamante, che abbaglia e taglia e trafigge. Eppure la velocità è femmina, forse.